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Le convenzioni tra enti del Terzo Settore e pubbliche amministrazioni rappresentano uno strumento chiave per sviluppare attività e servizi sociali di interesse generale, con modalità che si discostano dai tradizionali appalti pubblici. L’articolo 56 del Codice del Terzo Settore (Dlgs n. 117/2017) stabilisce come le pubbliche amministrazioni possano stipulare convenzioni con organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale iscritte al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS), quando queste risultino più vantaggiose rispetto al ricorso al mercato.

In questo primo articolo esploreremo il contesto normativo e gli obiettivi che le convenzioni si prefiggono, evidenziando le differenze con altre modalità di affidamento pubblico. Nel prossimo articolo, approfondiremo invece i requisiti, gli obblighi procedurali delle pubbliche amministrazioni e i vantaggi pratici offerti dalle convenzioni rispetto ad altre forme di collaborazione con il Terzo Settore.

 

La cornice normativa delle convenzioni

L’articolo 56, comma 1 del Codice del Terzo Settore, consente alle amministrazioni pubbliche di sottoscrivere convenzioni con organizzazioni no-profit per la realizzazione di servizi sociali, purché queste siano iscritte da almeno sei mesi nel RUNTS.

1. Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, possono sottoscrivere con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, iscritte da almeno sei mesi nel Registro unico nazionale del Terzo settore, convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale, se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato.

Le convenzioni, così configurate, mirano a valorizzare l’apporto del volontariato in attività di interesse collettivo, garantendo uno spazio dedicato al Terzo Settore all’interno dei servizi pubblici

 

Convenzioni e differenze rispetto agli appalti pubblici

Storicamente, la normativa sul volontariato (legge 266/1991) e quella sulle associazioni di promozione sociale (legge 383/2000) già contemplavano le convenzioni come alternativa agli appalti, in quanto prevedevano la possibilità di stipulare accordi per attività che non fossero esclusivamente soggette alle logiche di mercato. In questo contesto, le convenzioni devono chiaramente indicare:

  • Le attività effettivamente svolte;
  • I diritti garantiti agli utenti, come la riservatezza o la libertà religiosa;
  • I sistemi di controllo della qualità delle prestazioni;
  • Le modalità di rimborso delle spese sostenute.

Queste indicazioni aiutano a definire uno strumento di partenariato che non prevede profitti, in contrasto con gli appalti pubblici. Tuttavia, la giurisprudenza ha sollevato alcune critiche, sostenendo che l’assenza di scopo di lucro non basta per escludere del tutto tali enti dalle regole di concorrenza.

Il quadro giuridico europeo e la giurisprudenza nazionale hanno, infatti, sottolineato come anche le organizzazioni di volontariato possano partecipare a gare pubbliche, qualora presentino entrate marginali da attività commerciali. Inoltre, la gratuità del volontariato non permette la corresponsione di gettoni di presenza ai soci, preservando così la natura no-profit degli enti.

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